A Veglie un Matrimonio Clandestino del 1748 che anticipa la trama dei Promessi Sposi

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«Veglie 1748 – Matrimonio clandestino celebrato tra Francesco Giannone de Mayoribus, dei nobili di Bitonto, e la contadinella Emanuela Russo, vergine in capillis, di Veglie»

Antonio De Benedittis pubblica una delle centinaia di storie da lui trovate e trascritte dagli archivi storici riguardanti la Cronaca di Veglie

(Pillole di Storia Locale)

Continua la scoperta della straordinaria e curiosa Storia di Cronaca Locale che ogni tanto lo studioso di Storia Patria Antonio De Benedittis  regala ai cittadini vegliesi.

In questa occasione il documento portato alla luce e trascritto per una più facile lettura riguarda un episodio di cronaca locale legato ad un matrimonio che non si sarebbe dovuto celebrare ma che, con uno stratagemma simile a quello descritto circa un secolo dopo nel romanzo di Alessandro Manzoni “I Promessi Sposi”, sarà rocambolescamente celebrato dai due giovani vegliesi.

Di seguito la trascrizione completa del documento redatta da Antonio De Benedittis:

(Veglie 1748 – Matrimonio Giannone-Russo (Archivio storico diocesano Brindisi – Acta criminalia Veglie. Cr.26, in Biblioteca “ De Leo” – Brindisi) – Trascrizione Antonio De Benedittis)

Veglie 1748 – Matrimonio clandestino celebrato tra Francesco Giannone de Mayoribus, dei nobili di Bitonto, e la contadinella Emanuela Russo, vergine in capillis, di Veglie.

Protagonisti principali di questa storia sono:

Francesco Giannone de Mayoribus, per gli amici don Ciccio; battezzato con i nomi di Francesco Tommaso Antonio Filippo Giuseppe Rocco Leonardo, nasce a Veglie il 26 dicembre 1720 da Francesco Giannone seniore e da Agata Greco. (Il padre Francesco muore pochi mesi prima della nascita del figlio, a cui viene dato lo stesso nome del padre). La famiglia Giannone era una delle 18 famiglie nobili iscritte nel Sedile di S. Anna di Bitonto, mentre Agata Greco vantava nobiltà per parte della madre Gaetana Della Gatta, famiglia di origine napoletana, iscritta nel Sedile di Nido, trapiantata ad Otranto e che a Veglie aveva sposato nel 1676 Leonardo Greco. Abita strada San Vito. Muore a Veglie il 13 gennaio 1790.

Emmanuela Russo, battezzata con i nomi di Francesca Emmanuela Apollonia ma chiamata semplicemente Emmanuela, contadina, vergine in capillis, nasce a Veglie il 3 febbraio 1728, da Carlo Russo (deceduto nel 1742) e da Maria Ignini (deceduta nel 1743). Abita nella Terra di Veglie e proprio avanti l’ospedale, insieme al fratello Antonio e alla sorella Chiara. Muore a Veglie nella masseria Pirrune il 14 giugno 1762.

Sac. Giuseppe Ignini, battezzato con i nomi di Luca Giovanni Giuseppe, nasce a Veglie il 18 ottobre 1716 da Antonio Ignini e da Maria Donata Elia; D. Giuseppe, dopo la morte del cognato Carlo Russo e di sua moglie Maria Ignini, sua sorella, si sente in dovere di controllare, sempre di nascosto la vita pubblica e privata dei nipoti Antonio, Chiara ed Emmanuela Russo, con disappunto degli stessi nipoti che non gradiscono il comportamento dello zio. Abita alla strada delli Politi. Muore a Veglie il 12 giugno 1786.

Sac. Domenico Stasi, battezzato con i nomi di Leonardo Domenico, nasce a Veglie il 29 ottobre 1704 da Filippo e da Santa Stasi. Notaio apostolico. Abita in casa propria alla strada di S. Stefano unitamente al sac. D. Donato ed a Cordola Stasi, suo fratello e sorella, e con suor Anna Stasi, sua zia. In questa storia sostiene di essere parente in 4° grado di Emmanuela Russo. Muore a Veglie il 7 novembre 1760.

La Storia:

Agli inizi del 1748 il sac. Giuseppe Ignini viene a sapere che la nipote Emmanuela Russo, figlia della sorella Maria, tiene stretta e scandalosa relazione con il magnifico Francesco Giannone; ritenendo suo preciso dovere intervenire per far interrompere la relazione a causa dell’enorme differenza sociale che c’era tra le famiglie dei due giovani, dopo aver incontrato e minacciato don Ciccio per non più molestare la nipote, chiede a suor Elisabetta Ignini, altra sua sorella, di mandare a chiamare nella sua casa la comune nipote Emmanuela Russo.

La mattina del 14 febbraio 1748 Emmanuela si reca in casa della zia suora; appena varcata la soglia di casa dice: “Zia cosa volete, perché mi avete mandata a chiamare ?”. La zia rispose: “Non ti ho mandata a chiamare io”; e prima ancora che Emmanuela si riprendesse dallo stupore, sopraggiunge alle sue spalle lo zio D. Giuseppe che l’apostrofa dicendo: “Ti ho mandata a chiamare io”; detto questo incominciò a bastonarla di santa ragione.

Nella querela presentata lo stesso giorno al vicario foraneo a firma congiunta dei tre nipoti Emmanuela, Antonio e Chiara Russo, viene riferito – tra l’altro – che appena varcata la soglia di casa lo zio D. Giuseppe:

“… si ha preso in mano un grosso bastone di legno che teneva appeso alla giamberga e à incominciata a bastonare con furia diabolica la detta Emmanuela in testa, nelle braccia ed in tutta la vita e, doppo essersi stancato, si è rinfrescato e nuovamente ha fatto l’istesso sino che la estenuò con lividi tutta, anche con grande effusione di sangue, ed essendono accorse molte vicine alli gridi della suddetta paziente, e rimproverarono fortemente detto indegno sacerdote, cum riverentia, che non voleva in conto alcuno lasciarla, dicendo diabolicamente volersene bevere il sangue, e vedendola già quasi morta, le vicine a forza la levarono di sotto detto sacerdote, stonata, illividita e tutta insanguinata…”.

Appena ricevuta la querela il vicario foraneo D. Giovanni Marcuccio (Veglie 28-10-1683, ivi 22-7-1766), acquisisce la testimonianza delle persone che abitavano vicino alla casa di suor Elisabetta, alcune delle quali avevano assistito alla scena; una di queste è Lucia Fedele che riferisce:

“…quando entrai a casa di detta suor Elisabetta veddi Emmanuela Russo che piangeva e gridava perché la stava battendo con un piccolo bastone suo zio il sacerdote don Giuseppe Ignini, e le mazzate le dava sopra le braccia di detta Emmanuela sua nipote, poi veddi con propri miei occhi, che lasciò il bastone e la battette con la mano e li dava in faccia, et in testa, e li dava anco puntapiedi, e nell’istesso tempo viddi che suor Elisabetta sorella di detto sacerdote riparava li colpi difendendo la detta Emmanuela loro nipote, e veddi che dal naso di detta zitella Emmanuela ne usciva un poco di sangue quale si stusciò col mantile e con un faccioletto, e fra questo tempo vennero altre vicine e procurammo con buone parole quietare lo detto sacerdote…”.

Dopo aver sentito i testimoni il vicario foraneo fa visitare Emmanuela Russo da mastro Blasio Panzanaro, barbiero e insagnatore con qualche cultura di chirurgia, il quale afferma che i lividi sulle braccia, in faccia e sul corpo di detta Emmanuela sono stati fatti di recente con un bastone. Appena don Ciccio viene a sapere quello che era successo alla “sua” Emmanuela decide di passare all’attacco e il giorno dopo presenta querela contro il sacerdote Ignini con la quale sollecita il vicario generale a che lo scomunicasse:

“.…perché si è fatto lecito portarsi assieme con altre persone, con armi proibite, sottana, stola e cappello di prete, e quello che è più di scandalo con una strega fatta venire a posta da Lecce dentro il bosco di Arneo, poco lontano dalla torre di Arneo, in un luogo che chiamano S. Nicolicchio dove appariscono pietre delle fondamenti della chiesa, che vi sarà stata un tempo, per trovar un tesoro, dove si dice pubblicamente esser sortite molte superstizioni e sortilegi operati da detta strega, per li quali è incorso nella scomunica…”.

Mentre le due querele presentate nella curia arcivescovile di Brindisi facevano il loro corso, a Veglie ci si prodigava per far interrompere la relazione tra i due giovani stante l’impossibilità di farli sposare; sulla vicenda interviene pure, senza successo, la principessa di Belmonte la quale per mezzo dei suoi ministri convoca a Galatone il Giannone e gli fa mandato di non frequentare più la casa della Russo; inoltre il canonico Battista, pure di Galatone, fa recapitare per mezzo dello stesso Giannone una lettera al vicario foraneo di Veglie chiedendo il suo interessamento per il rappacificamento delle parti. Il vicario riesce a far incontrare nel suo giardino il Giannone con il sac. Domenico Stasi, notaio apostolico che sosteneva la causa dei due fidanzati e che si definiva cugino della Russo; l’incontro tra i due sortisce l’effetto desiderato:

“…sicché da me chiamati e frappostomi (riferirà poi il vicario foraneo don Giovanni Marcuccio) sortì facile e subito la lor pace, e quell’istesso tempo lo Giannone si portò per mano lo detto don Stasi dentro il mio orto, dove fra di essi discorsero a lungo e poi se ne partirono unitamente e pacificati, e ne fecero le dimostrazioni per questa Terra. Dopo, lo prefato don Stasi mi riferì che il discorso fatto dal Giannone dentro il mio orto, sia stato che lo Giannone si manifestò che avea conosciuta carnalmente tre fiate la detta nipote di don Ignini, ma perché questa avesse riluttato nella prima fiata, esso l’avesse dato parola di futuro matrimonio, e che perciò era obbligo di sua coscienza affidarla, e che avessero perciò concertato il quid agendum…”.

A questo punto lo scenario cambia perché la seduzione della Russo era avvenuta con promessa di matrimonio e questo, secondo il costume dell’epoca,imponeva al Giannone pronta riparazione; per la verità, don Ciccio voleva adempire alla promessa fatta ad Emmanuela, ma i suoi parenti non erano dello stesso avviso. Stringe quindi alleanza con i due sacerdoti Ignini e Stasi, suoi acerrimi nemici fino a pochi giorni prima, e per meglio gestire la faccenda, al riparo dei parenti, va via da casa e si trasferisce in casa del sacerdote Ignini dove gli è consentito di coabitare con l’amata però solo di giorno perché la notte la Russo la va a trascorrere in casa del sacerdote Stasi; nello stesso tempo i due giovani vengono messi a cospetto dell’arciprete D. Donato Maria Bardaro (Veglie 15-2-1696, ivi 13-4-1761) innanzi al quale confermano la loro volontà di volersi prendere per marito e moglie; a questo punto l’arciprete Bardaro predispone la documentazione necessaria, ma non riesce a completarla perché mancante del certificato di stato libero dello sposo per i cinque anni che aveva soggiornato a Bitonto in casa dei suoi fratelli, certificato che l’arciprete Bardaro richiede ma che non gli viene mai rilasciato.

Durante questo periodo i due giovani sono guardati a vista e a nessuno era permesso di avere contatti; il cugino Pasquale Greco (Veglie 1722, ivi 1782), armata manu, era continuamente appostato nelle vicinanze dell’abitazione del sac. Ignini per impedire a Francesco di uscire e recarsi da qualche notaio per stipulare i capitoli matrimoniali; due tentativi fatti da Francesco in questo senso si erano conclusi con inseguimenti rocamboleschi all’interno del feudo.

Una sola volta, eccezionalmente, il cugino Pasquale Greco (senza armi) e la sorella di Francesco, Silvia Giannone, vengono messi al cospetto di Francesco; nel corso dell’incontro i due implorarono Francesco perché non celebrasse il progettato matrimonio stante l’enorme disparità sociale esistente tra le due famiglie, consigliandolo, per il suo bene, di scappare da quella casa e di ritornare dalla madre.

Su questo incontro riferirà poi il vicario foraneo:

“…Non sono mancati messi, come anche l’istesso figlio di sig. Greco (Pasquale) e la sorella del Giannone sposo (Silvia Giannone), venuta apposta da Campi, quali anno cercato avere l’ingresso e discorrere con detto D. Francesco Giannone, come l’è stato permesso una fiata, con tutti li di loro sforzi, non anno possuto vincere la costanza e ostinazione del medesimo, sempre dicendo volersi salvare l’anima, e volerla in ogni conto per moglie, et aversela ben consultato con confessori e savij e che quando li diede parola di matrimonio ci avesse invocato in testimonio la Santissima Triade e altri Santi, e l’anime sante del Purgatorio…”.

Visto vano ogni tentativo per fargli cambiare idea il 6 marzo 1748 Agata Greco madre di Francesco con una accorata lettera si rivolge al vicario generale di Brindisi (nella cui curia i Giannone e i Greco avevano una forte influenza) chiedendo il suo intervento perché il figlio “è andato via da casa e intende sposare Emmanuela Russo, povera zitella di Veglie, per restituirli l’onore che le aveva tolto, il tutto contro la volontà di essa Agata Greco, madre, dei fratelli e dei parenti…”.

La lettera è accompagnata da altra lettera a firma del fratello di Agata Greco, il magnifico Nicolò Maria, che caldeggia quella della sorella e riferisce al vicario generale in quale gravissima situazione si è venuta a trovare la sua Casata per colpa di due sacerdoti che stanno maneggiando l’affare: D. Giuseppe Ignini, che è un ignorante, e D. Domenico Stasi, che è di cervello notoriamente inquieto e torbido ed è malvisto da tutta la popolazione.

Segue un continuo scambio di informazioni tra il vicario foraneo Marcuccio e il vicario generale mons. Ferri, il tutto finalizzato a prendere tempo e a non far rilasciare il certificato di stato libero dalla curia di Bitonto, senza il quale il matrimonio non poteva essere celebrato, e tutto ciò in attesa dell’arrivo da Bitonto del canonico D. Giovanni Battista Giannone (Veglie 1709, Bitonto 1764), fratello di D. Francesco, che aveva progettato una soluzione per sistemare la faccenda; la “sistemazione” progettata dal canonico consisteva nel riportare don Ciccio a Bitonto e a far rinchiudere Emmanuela in un Conservatorio.

Francesco però non tarda a rendersi conto che il suo certificato di stato libero da Bitonto non sarebbe mai arrivato e, inoltre, essendo molto preoccupato per l’imminente arrivo del fratello maggiore, decide di contrarre subito il matrimonio senza documenti e senza le formalità necessarie sapendo che secondo i canoni del Concilio di Trento per la validità del matrimonio era necessario l’assenso degli sposi da esprimere innanzi all’arciprete ed ad almeno due testimoni.

Convinto come era della legittimità della sua azione mette in atto uno stratagemma per fare in modo che in un determinato giorno l’arciprete, il sacrestano e alcuni testimoni si trovassero presenti contemporaneamente in casa del sac. Giuseppe Ignini dove si sarebbe trovato lui con la futura sposa. Evidente che questa “soluzione” gli era stata suggerita da D. Giuseppe Stasi, sacerdote e notaio apostolico, recidivo in questo genere di matrimoni, anche se la curia brindisina in sede di processo non riuscirà a dimostrare il suo coinvolgimento diretto nella celebrazione del matrimonio clandestino.

L’incontro si svolge la sera del 16 marzo 1748; quello che avviene in quella casa viene raccontato, in sede di informazione, da Gabriele Elia uno dei testimoni che si trovavano presenti, la cui deposizione, peraltro, collima con quella resa dagli altri testimoni e dallo stesso arciprete:

“…Questa sera medesima le sedici del mese che corre di marzo, circa lo tramontare del sole, fui chiamato da don Giuseppe Ignini, mio consubrino, a portarmi in sua casa dove mi voleva D. Francesco Giannone, ed io apprettai lo detto don Giuseppe a dirmi a qual fine, mi confidò, che lo detto D. Francesco affidava Emmanuela Russo sua nipote, e portatomi in detta casa vi ritrovai lo detto D. Francesco, la detta Emmanuela, e Chiara Russo, sorelle, Caterina Ignini, sorella di detto don Giuseppe, Pascale Elia, mio fratello, e Giuseppe Casilli: lo detto D. Francesco m’intepose che m’avesse trattenuto in detta casa perché l’aveva da servire, senza dirmi in che cosa; veddi anche entrare in detta casa il sacrestano Giovan Battista Funiati, il quale chiamato da detto D. Francesco, non so che li disse segretamente; lo detto sacrestano si partì e lo detto D. Francesco fece ritirate tutti noi con la detta Emmanuela dentro la camera. Poco dopo intesi tozzolare la porta, ed entrò il rev. arciprete Bardaro con lo detto sacrestano, conforme conobbi dalla loro voce, perché stavamo nascosti dentro la camera e non li potevamo vedere, ed intesi la voce di detto D. Francesco che si ritrovava nella stessa stanza dove entrò lo detto arciprete, e cercò la sua giamberga, ed entrò nella detta camera spogliato del giambergone che portava, si pigliò la giamberga violata e fece segno a tutti noi, e ci disse che uscissimo subito, come già subito uscimmo tutti da detta camera, e quando ci vedde lo detto arciprete, lo veddi atterrirsi, e subito fuggì verso la porta, che ritrovò chiusa con li catenelli, e gridando diceva: Che tradimento è questo ?. Questo è tradimento, D. Francesco V.S. non lo fa da cavaliere, né da galantuomo, ma frattanto li detti D. Francesco ed Emmanuela corsero ed abbracciarono lo detto arciprete, e lo trattenevano con gran forza a non aprire la porta, e fuggire; e lo detto D. Francesco gridando diceva: Sig. arciprete questa Emmanuela Russo è mia moglie, quale io voglio per moglie, e la detta Emmanuela Russo diceva: Questo D. Francesco Giannone è mio marito, e lo voglio per marito, e così li detti sposi più fiate replicarono, nel mentre l’arciprete nell’istesso tempo replicava le suddette parole di tradimento, e cercava scappare, ed era da detti sposi trattenuto, e corse per fuggire dall’altra porta quale ritrovò anche chiusa con li catenelli, e lo detto D. Francesco soggiunse: è questo è l’anello della fede che li metto, e l’abbracciò e la baciò, come sua moglie, e fra tanto l’arciprete scappò con l’aiuto del sacrestano, che l’aprì mezza porta; lo detto D. Francesco anche disse nella fuga dell’arciprete rivoltato a noi: Inteso m’avete? ed io non risposi cosa alcuna; e tutto è occorso questa sera…”.

L’arciprete Bardaro, sconvolto fino all’inverosimile per quanto era accaduto e per il tranello che gli era stato teso, appena riesce a fuggire si reca in casa del vicario foraneo D. Giovanni Marcuccio al quale riferisce l’accaduto e questo, a sua volta, trasmette nella stessa serata apposita relazione al vicario generale in Brindisi.

Come primo ed immediato provvedimento il vicario generale mons. Nicola Ferri infligge la scomunica ad entrambi gli sposi, poi ordina alla corte civile di rinchiudere nelle proprie carceri il Giannone e infine convoca a Brindisi i due sacerdoti Stasi e Ignini facendoli rinchiudere nel palazzo arcivescovile, loco carceris, in attesa del processo.

In pari tempo chiede all’arciprete notizie sugli sposi; riferisce l’arciprete:

“….So bene il magnifico Francesco Giannone che sia figlio del quondam Francesco della città di Bitonto, e nobile di detta città, e lo detto magnifico Francesco, figlio, quantunque sia oriundo dalla detta città, e però esso nato e battezzato in questa Terra di Veglie, dove dimorò nel tempo di sua puerizia, e poi passò a dimorare nel tempo di sua adolescenza nella detta città, (da novembre 1732 a maggio 1737) d’onde poi ritornò in questa Terra dove ha dimorato sempre e dimora, ed è figlio ancora della magnifica Agata Greco di questa Terra, ed è giovine libero, ma giorni sono e propriamente a 24 del corrente mese diede pubblica parola di futuro matrimonio alla detta Emmanuela Russo, ed io da loro richiesto li esplorai precedentemente il loro voto, e furono ambedue consenzienti, e la detta Emmanuela Russo è figlia delli quondam Carlo Russo e Maria Ignini, tutti tre contadino e contadine di questa Terra, dove la detta Emmanuela da che nacque, e sino al presente sempre ave abitato, ed abita, ed è zitella in capillis, che come ho deposto a 4 del corrente mese diede pubblica parola di futuro matrimonio allo detto magnifico Francesco Giannone, mediante la previa esplorazione del voto consenziente per detto matrimonio…”.

Il provvedimento di scomunica viene fortemente contestato dal Giannone e dalla moglie i quali convocati dal vicario generale nella curia arcivescovile di Brindisi, motivano il loro disappunto sostenendo che la forma del matrimonio, così come è stato celebrato, è prevista dal Concilio di Trento, e che il matrimonio è stato celebrato non già per disubbidire alla Santa Chiesa, della quale si protestano essere fedelissimi figli, ma solo perché i congiunti di esso Giannone erano contrari al matrimonio per l’enorme differenza sociale che c’era tra le due famiglie. In altri termini i due sostengono la legittimità del loro matrimonio ancorché celebrato fuori della chiesa, senza i prescritti documenti e senza le prescritte pubblicazioni.

Il vicario mons. Nicola Ferri benché consapevole che le motivazioni esposte dai due sposi erano veritiere e degne di essere prese in considerazione, tuttavia si vede “costretto” ad assecondare le forti pressioni fatte da componenti delle famiglie Giannone e Greco all’arcivescovo di Brindisi mons. Antonino Serzale, e quindi non può che confermare la scomunica precedentemente inflitta.

Francesco Giannone si rende subito conto che la sua audacia e spregiudicatezza non sortivano alcun effetto positivo alla sua causa e quindi decide, suo malgrado, di cambiare strategia sottomettendosi al vicario generale, riconoscendo i propri errori e chiedendo perdono per quello che aveva fatto.

Il 17 aprile 1748 Francesco ed Emmanuela scrivono al vicario generale:

“Rev/mo Signore,
Francesco Giannone ed Emmanuela Russo devotissimi oratori di V. S. rev/ma con umil supplica le rappresentano, come da più tempo trovasi i supplicanti scomunicati per cedolare da questa arcivescovil curia per avere i medesimi, senza le solennità ordinate dal S. C. di Trento, contratto tra essi matrimonio clandestino. E perché i supplicanti si mossero a ciò fare, et ob verecundiam, stante la notabile disparità era tra loro, et ob metum, l’essergli impedito di ciò effettuare colli debiti requisiti, per l’opposizione de’ congionti del supplicante, dai quali già erasi macchinato il non fare spedire dalla curia di Bitonto i testimoniali dello libero stato di esso supplicante, tanto che veruno impedimento gli si potea fare, e nello stesso tempo erasi da colà portato in Veglie il canonico don Gio: Battista Giannone, suo fratello, per impedire l’effettuazione di tal matrimonio anche con minacce, quando il supplicante non potea senza detrimento della sua anima ricusarsi da simil matrimonio, perché sotto promessa tale anche giurata, avea carnalmente congiunta la detta Emmanuela, e quindi meritano i supplicanti tutto il compatimento, e misericordia non avendo inteso far ciò in disprezzo di S. Chiesa alla quale intendono e si protestano star sempre subordinati come fedeli.
Perciò umiliati a piedi di V. S. rev/ma e colle lagrime sugli occhi pentiti di tal errore la supplicano benignarsi assolverli da tal censura, acciò non si veggano più segregati dall’umana consorsio, e fuori dalla Santa Madre Chiesa, e possano adempire al santo precetto pasquale, restando servita commetterne il proscioglimento al rev. arciprete di detta Terra di Veglie, che ut Deus”.

L’istanza sortisce l’effetto desiderato.

Appena ricevuta la richiesta di perdono, il vicario generale mons. Nicola Ferri ordina all’arciprete Bardaro di assolvere i due sposi dalla scomunica inflittagli imponendogli però una salutarem penitentiam.

Il 19 maggio 1748, giorno di domenica, nella chiesa matrice di Veglie i due sposi, avendo già espiato la penitenza, vengono assolti dalla scomunica e il giorno dopo nella Chiesa del convento contraggono “regolare matrimonio” secondo il rito della Santa Romana Chiesa, innanzi al padre maestro Serafino Mazzarello.

Dopo la celebrazione del matrimonio nelle famiglie Giannone e Greco ritorna la pace e la serenità sicuramente perché avranno avuto modo di apprezzare le qualità della contadinella Emmanuela la cui unica colpa era quella di non appartenere al ceto dei nobili.

Don Ciccio ed Emmanuela hanno cinque figli; uno viene battezzato dal cugino Pasquale (quello stesso cugino che voleva impedire il matrimonio armata manu), un altro viene battezzato dalla madre Agata Greco (quella stessa madre che unitamente a suo fratello, il magnifico Nicolò Maria Greco, si era rivolta al vicario generale per impedire la celebrazione del matrimonio che il figlio voleva contrarre con una popolana), gli altri figli vengono battezzati da notabili locali.

Di questi cinque figli solo una figlia raggiunge la maggiore età e sposa a Veglie il dottore fisico Pasquale Paladini di Leverano.

La storia d’amore finisce tragicamente il 14 giugno 1762; Emmanuela muore nella masseria del marito vulgo dicta lu Pirrune subito dopo aver partorito il quinto figlio a nome Michele; aveva solo 34 anni.

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Mentre si svolgevano questi avvenimenti la curia brindisina, giusta le querele in atti, continuava a portare avanti l’informazione nei confronti di quei sacerdoti che avevano preso parte al complotto nonché di quegli altri sacerdoti che si erano recati in Arneo insieme ad una strega di Lecce alla ricerca di tesori, fra i quali, oltre al sac. D. Ignini, c’era pure il sac. D. Giovanni Battista Miali.

Completata l’informazione i tre sacerdoti (Ignini, Stasi e Miali) vengono invitati a nominarsi un avvocato a loro difesa, ma il 29 aprile 1748, dopo aver letto le deposizioni fatte dai testimoni e avendo riconosciuto che rispondevano alla verità, decidono di rinunziare alla difesa e di rimettersi alla immensa clemenza dell’arcivescovo e del suo vicario, facendo leva sul fatto che le querele nei loro confronti erano dovute ad eccessi compiuti in buona fede.

Agli inizi di maggio viene emessa e pubblicata la sentenza a firma dell’abate Nicola Ferri, UID, professore in sacra teologia, probh. apostolico, luogotenente e vicario generale dell’arcivescovo di Brindisi don Antonino Sersale; con la sentenza emessa i due sacerdoti (Stasi ed Ignini), in considerazione del fatto che avevano rinunziato alla loro difesa, vengono sospesi a divinis per soli due anni, salva la moderazione e grazia dell’ill/mo e rev/mo arcivescovo, con obbligo altresì di presentarsi in curia ogni qualvolta verranno convocati.

Il sacerdote Ignini, visto che la pena era stata inflitta, salva la moderazione e grazia dell’ill/mo e rev/mo arcivescovo, immediatamente decide di avvalersi diquesta opportunità e presenta domanda di grazia, non avendo alcuna difficoltà a definirsi poverissimo e ignorante (forse perché era vero), e dice:

“…esso supplicante si ritrova poverissimo, n’è ha maniera di poter vivere senza le rendite della sua chiesa essendo pure carico di debiti, e specialmente di dover sodisfare fra giorni l’atti fabbricati per dette cause, crede con la toleranza di detta suspenzione verrebbe a patire notabilissimi danni, perciò prostrato a piedi di V. S. ill/ma, con le lacrime agli occhi, e per le viscere di Gesù Cristo lo supplica degnarsi di agraziarli detta suspenzione, e lo riceverà per singolar gratia di V. S. ill/ma, tanto più, che dette sue inquisizioni sonoprocedute da una grande ignoranza di esso supplicante, come è già noto, e lo riceverà gratia quam Deus”.

Non si conosce l’esito della domanda di grazia ma si ha motivo di ritenere che sia stata accettata e che sia stato condannato solo a quei otto giorni di esercizi spirituali che in atti risulta aver effettuato nella Congregazione della Missione di Lecce nei giorni successivi alla richiesta di grazia.

Rientrato a Veglie D. Giuseppe Ignini, come se nulla fosse successo, continua ad esercitare il “suo dovere” di controllare assiduamente e morbosamente la vita pubblica e maggiormente quella privata degli altri due nipoti, Antonio e Chiara, contro la volontà degli stessi nipoti, collezionando nell’agosto del 1749 altre due querele.

Le informazioni in merito a queste nuove querele vengono affidate al vicario foraneo di Salice sac. Domenico Antonio Civino; questi dopo aver litigato egli stesso con il sacerdote Ignini nella spezieria di Francesco D’Amato in piazza, lo definisce un pazzo abbisognevole di mortificazione e chiede al vicario generale di non avere compassione nell’emettere la sentenza perché è incorreggibile.

La condanna che gli viene inflitta consisteva nell’essere trattenuto nella città di Brindisi, loco carceris, lontano dal luogo dove aveva compiuto gli eccessi; il periodo di trattenimento doveva essere alquanto breve perché il 25 agosto successivo, dopo appena un mese dalla sentenza, chiede al vicario di farlo rientrare a Veglie per trovare i soldi per pagare le spese processuali che ammontavano a otto ducati e mezzo.

La richiesta viene accolta.

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Antonio De Benedittis

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