Cosimo Fai: «Anche i muri parlano»

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«La Storia non si cancella, la Storia si spiega»

Una piccola scoperta nata con un caffè porta alla luce una “Pillola di Storia Locale” con riflessioni sullo stato di incuria di alcuni pezzi di Storia

(Pillole di Storia Locale)

Articolo  a cura di Cosimo Fai

VEGLIE – «Ci scommetto un caffè che anche questa volta non ci sarà nessuno che avrà la voglia e la capacità di “ascoltare”».

Dopo aver scritto delle “pietre” dimenticate, maltrattate, distrutte, perse e ritrovate (LE PIETRE RACCONTANO LA NOSTRA STORIA) e dopo aver compreso (facile, troppo facile) che tutto è riconducibile a quel senso di oblio che la coscienza vuole far calare sui simboli di un periodo storico italiano, il “Fascismo”, volontà esercita più per opportunismo che per reale convinzione (il riferimento è alle due lapidi relegate in un angolo del convento, sperando che nessuno le deturpi ulteriormente o le faccia sparire);

Dopo aver ricordato ai più, che guardano distrattamente alla fontana monumentale situata in piazza e alla sua storia, e di come questa sia stata deturpata, nel 1943-1944, abbattendone con cura certosina le asce che completano i quattro fasci littori alla base della seconda vasca;

Dopo aver sofferto nella mancanza di sensibilità e cultura, dimostrando tutta l’incapacità e l’assoluta mancanza di volontà di recuperare un bene prezioso come la colonna dell’Osanna, più volte violentata, anzi sottoposta ad un certosino lavoro di decapitazione dei quattro evangelisti che completano il capitello, segno di un anticlericalismo settecentesco, figlio di un illuminismo “senza candela”;

Dopo aver perso la voce e la speranza di vedere un minimo interessamento (più volte blaterato e sbandierato, in maniera ipocrita da tutti gli attori delle istituzioni interessate, e anche oltre) nel recupero della famosa colonna in ricordo dei caduti della prima guerra mondiale, abbattuta, fatta a pezzi, violentata, gettata, infangata, abbandonata in un angolo del cimitero;

Dopo aver assistito alla lenta ed inesorabile distruzione delle statue in cartapesta, e relative teche in legno, polverizzate, decapitate, abbandonate all’umido, allo scempio delle tarme, ormai bene prezioso irrecuperabile (Signore mio perdonali perché non sanno quello che NON fanno);

Dopo aver vissuto come una ferita personale, vedere l’incuria, la mancanza di conoscenza, l’assoluta indifferenza, nel calpestare “pietre” vive, ricche di storia….

Dopo aver compreso che a Veglie tutto si distrugge perché nulla si debba ricreare (quanto mi piacerebbe che qualcuno mi dimostrasse il contrario. Volentieri chiederei scusa in pubblica piazza);

Dopo aver visto mettere le mani su ciò che resta dell’archivio storico, per necessità, perché bisognava “sgomberare” (mai termine fu più appropriato: “sgomberare”) rafforzando in me la convinzione che a Veglie  la cultura deve “sgomberare”, per lasciare il posto a… non so che cosa. Al nulla, al niente, all’oblio, al mondo dei sogni, all’inconcludenza più assoluta, all’inerzia, alla fantascienza….

Mi rendo conto che Veglie non vive di CULTURA-IN ma si nutre di IN-CULTURA. (Pensiero mio, ovviamente)

Ciò che lascia sconcertati è la mancanza assoluta di indignazione, ribellione, ad uno stato del genere. Per troppo tempo abituati al silenzio abitudinario, a tratti omertoso. Se non per tutti, per molti va tutto bene. Va bene così, silenzio, non parlare, non discutere, non mettere in discussione.

Manca solo la classificazione medievale in sovrani, vassalli, e servi della gleba.

Paolo Crepet scrive:

“Sant’Agostino diceva una cosa bellissima: La speranza ha due figli, bellissimi: il primo si chiama indignazione, e il secondo si chiama coraggio. E diceva: l’indignazione serve a farci capire ciò che non ci piace, ciò che non riusciamo a tollerare, e il coraggio serve per cambiare ciò che non ci piace. Però, per fare questo, dovete sapere che cosa state criticando. Dovete conoscere le cose che non vi piacciono e poi dovete trovare dentro di voi, e ce l’avete, e ce l’abbiamo tutti, il coraggio per dire: questa cosa qui non mi piace e la cambio.”

Il prossimo scempio appartiene alla cronaca dell’altro ieri. Inno orchestrale all’incuria e alla inciviltà. Soprassediamo volentieri. (DALLA “SECCHIA RAPITA” ALLA “FONTANA RUBATA”) – (FONTANA RITROVATA)

Dopo tanto “gioire”, ecco che un amico,  Fabio, lo chiameremo con un nome di fantasia, (perché nella realtà si chiama Fabio Donateo, sperando si colga la facile ironia) ha voluto affondare il dito nella piaga, coinvolgendomi nella interpretazione di una scritta presente su un muro, che in verità, lo ammetto, mi era sfuggito in 64 anni di vita. Un muro parlante, già abbondantemente provato dal tempo e dalla mano dell’uomo, una mano questa volta incolpevolmente, e mi piace sottolinearlo chiaramente, anzi, è stato conservato fino ai giorni nostri pur senza averne l’obbligo.

Un muro sul quale si intravede una scritta, a caratteri cubitali, con quel tipico carattere cosiddetto “a bastoni” o “senza grazie”, privo di ornamenti, semplice e squadrato, essenziale nella sua linearità, iscritta in un riquadro di forma rettangolare.

A chi vuol leggere anche le pietre, a chi ama “tutto” del proprio passato, presumiamo, sapendo di non essere lontani dal vero, che la  scritta così recita:

LA CLASSE LAVORATRICE
È LA POTENZA LA SPERANZA
LA CERTEZZA DELL’AVVENIRE
D’ITALIA

Chiaramente è una tipica “scritta murale” del periodo fascista, uno dei principali mass media attraverso cui la propaganda fascista poté diffondersi.  Essa rappresentava una forma di propaganda tutt’altro che marginale. Svolgeva compiti propagandistici ideologicamente assai efficaci. Il TikTok, WhatsApp, Instagram, Facebook dei giorni nostri, un cartellone pubblicitario, una gigantografia stradale.

La frase fa parte di quei motti, epigrafati spesso in concomitanza con i discorsi mussoliniani. Erano piccoli brani, formule ideologicamente pregnanti, isolabili dal loro più ampio contesto. Si trattava di espressioni con frequente uso di imperativi o di indicativi di sapore imperativo.

Quel rettangolo di muro, pronto a riempirsi di volta in volta con frasi diverse, ci fa intuire l’importanza che il motto assumeva, non tanto perché portatore di un proprio specifico messaggio, quanto piuttosto come parola stessa del duce, come ipse dixit, segno di un potere proprio, quasi magico.

Durante il ventennio fascista i muri delle case posti in posizione strategica, all’ingresso dei centri abitati o lungo le vie di scorrimento, venivano usati come lavagne per diffondere il verbo del Duce.
Si trattò di una propaganda capillare, martellante e diffusa in ogni borgo abitato. Erano scritte a caratteri cubitali e quindi leggibili anche da lontano, per lo più nere su fondo bianco, per meglio essere notate.  Fu un sistema efficace per i tempi e adatto a una popolazione dove la radio non aveva ancora una grande diffusione. Dopo la presa del potere dalla fine degli anni ’20 e per tutti gli anni ’30 il Duce affidò la propaganda del regime dapprima a Costanzo Ciano poi al figlio, e suo genero, Galeazzo sotto la cui guida il ministero della stampa e della propaganda divenne Ministero della Cultura Popolare più noto con la sigla Min.Cul.Pop. Questo ministero estrapolava dai discorsi o da scritti di Mussolini le frasi che dovevano servire allo scopo e le inviava ai Prefetti di ogni città che, in accordo con le autorità comunali, sceglievano le ubicazioni e gli spazi dove dovevano essere allocate.
Ricordiamo che i proprietari degli immobili dove venivano posizionate le scritte avevano diritto ad un risarcimento proporzionato all’ingombro.
Mussolini prima di darsi alla politica era giornalista e credeva molto nel potere della carta stampata.”

Il muro in questione è in via Leverano a Veglie e la scritta è ben visibile, (o per lo meno era ben leggibile a chi proveniva da quel versante, presupponendo che negli anni ’30, quell’abitazione era una, se non l’ultima casa prima dell’aperta campagna, per cui si prestava bene ad apporvi quel messaggio. L’abitazione in questione è stata costruita nella seconda metà degli anni ’30).

La frase in questione è tratta da:

I discorsi del cinque ottobre
(5 ottobre 1924)

Nelle cronache si legge:

Nel pomeriggio dello stesso giorno, 5 ottobre 1924, il Duce andò a Legnano, ove visitò, fra l’altro, lo Stabilimento Tosi, distribuendo otto croci al merito del lavoro, assegnate ad operai dello stabilimento. In tale occasione pronunziò il seguente discorso:
«Così io intendo la collaborazione. Così la intendono in questa gloriosa Legnano — gloriosa non meno per le industrie che per la battaglia — così la intendono i vostri industriali dei quali un modello è il vostro onorevole Tosi, il cui padre ha creato, attraverso decenni, queste potenti officine dalle quali escono opere mirabili.
      Voi, operai, potete essere oggetto di lusinghe. Ma io vi ripeto che il Fascismo ed il Governo che rappresento non hanno nessun interesse ad andare contro la classe lavoratrice. Se lo facessero sarebbero stolidi.
La classe lavoratrice è la potenza, la speranza, la certezza dell’avvenire d’Italia.
      Eleviamo dunque un pensiero di gratitudine a questi vostri compagni, eleviamo un inno al lavoro umano che forma, aumenta, accresce la ricchezza nazionale con la conquista dei mercati del mondo, al lavoro che è il vostro titolo di nobiltà.
      Viva il lavoro, viva l’Italia.

A questo punto ognuno farà le proprie valutazioni e considerazioni, di carattere storico, politico, culturale e chi più ne ha più ne mette.

Non intendo promuovere una partita di calcio, con chiamata alle armi dei relativi supporter, e tifosi. Niente epiteti, niente scazzottate, niente striscioni, non intendo partecipare e stimolare un dibattito tra chi è pro e chi è contro una data ideologia, tra chi è contro o a favore del fascismo, tra chi è a favore del comunismo e chi è contrario, e via discorrendo.

Ma la storia è storia e quel muro, giunto fino a noi nel silenzio più assoluto, è un dato di fatto. Spero solo, nel rispetto del proprietario di quello stabile, che non si svegli il cretino di turno, e si scagli contro una proprietà privata. All’epoca, privata anche della libertà di scegliere.

Molte sono le scritte sopravvissute al regime, i muri continuarono a parlare per decenni, ovviamente furono cancellate quelle che erano sugli edifici pubblici, mentre per quelli privati l’onere era lasciato ai singoli proprietari che vi provvedevano senza fretta in occasione di restauri. Questo ha fatto si che perfino al giorno d’oggi, (come nella nostra Veglie, nell’esempio che stiamo segnalando, dopo quasi un secolo) alcune siano ancora leggibili.

La frase presente a Veglie è oramai resa illeggibile dal tempo e da lavori succedutisi negli anni, e certamente non rappresenta più una forma di propaganda.

Quella scritta, oggi,  ha il potere solo di ricordarci un periodo della nostra storia di cui non possiamo essere fieri e, al tempo stesso, la forza di un ammonimento utile per non ricadere negli stessi errori.

Ma ha anche un altro potere, negativo. Aggiungere alla collezione del “distruggibile” anche questo piccolo segno del tempo.

La storia non si cancella, la storia si spiega.

 Cosimo Fai

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