«Il diritto alla cultura e la logica di mercato nella “Buona Scuola”»

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Le Considerazioni di fine anno del dott. Donato Vese sulle riforme del governo Renzi

Quando la “Scuola” scende – letteralmente – in piazza per reclamare i propri diritti bisogna chiedersi anzitutto quali siano i diritti e quali di questi debbano essere soddisfatti.

Ad esempio, il “diritto allo studio” è un diritto che la nostra Carta fondamentale contempla come bene meritevole di tutela?

La Costituzione, infatti, non fa un esplicito riferimento a questo diritto, né intende configurare lo stesso come uno specifico obbligo che lo Stato ha nei confronti dei cittadini. Tuttavia di diritto allo studio la Costituzione parla quando prevede l’evenienza che taluni soggetti, benché “capaci” e “meritevoli”, non siano in grado di “raggiungere i gradi più alti degli studi”, perché sprovvisti di (adeguati) “mezzi” (economici). In questo caso essa impone allo Stato uno specifico obbligo di adempiere al diritto in questione. È la stessa Costituzione, infatti, a stabilire che tale obbligo venga assolto mediante la previsione e l’assegnazione (per concorso) di tutti quegli strumenti economici idonei a rendere effettivo tale diritto. Così, in tal senso, l’attribuzione di borse di studio, assegni e altre provvidenze sono espressamente previsti dalla Carta fondamentale come strumenti economici basilari per garantire l’istruzione a tutti quegli studenti meritevoli e capaci ma le cui famiglie non abbiano risorse necessarie.

Saranno questi i diritti che oggi gli studenti italiani invocano a gran voce? Sono questi i diritti che la “Riforma della scuola” (la c.d. “Buona scuola”) del governo Renzi ha dimenticato di soddisfare?

A quanto pare no. Non sono necessariamente solo questi diritti che, da un po’ di tempo a questa parte, studenti e insegnanti chiedono alle Istituzioni. Il diritto che oggi essi implorano va oltre il mero diritto allo studio di ciascuno studente, sia esso meritevole o immeritevole, capace o incapace, privo o munito di mezzi: questo diritto è il diritto ad avere una Scuola degna di essere chiamata tale, ad avere insegnanti degni di essere chiamati tali, ad avere una istruzione degna di essere chiamata tale.

Quindi, non un generico diritto allo studio ma un diritto alla “cultura”, un diritto alla “Buona cultura”, cultura delle arti e della scienza che, come prevede la Costituzione, sono “libere” ma non liberalizzate, non necessariamente pubbliche ma non completamente privatizzate.

Quello che gli studenti e gli insegnanti oggi sembrano chiedere è un diritto all’istruzione come ‘sistema pubblico della cultura’, in cui la ‘logica’ del mercato, anche quello delle arti e della scienza, resti, per quanto possibile, fuori dalle Istituzioni scolastiche ed universitarie dello Stato. Istituzioni in cui gli studenti non diventino solo una matricola ed un badge di una scuola o di un’università, magari rinomata. In cui gli insegnanti non siano valutati in base alla loro performance individuale, alla stregua dei dipendenti di una qualsiasi società di capitali. In cui i prèsidi e i rettori non si trasformino in spietati managers, che compiono scelte cruciali per l’istituzione con il solo obiettivo di far quadrare i bilanci dell’ente.

È corretto affermare che un sistema economico, anche quello scolastico ed universitario, è competitivo se competitive sono le sue componenti – dirigenti, insegnanti, studenti – essenziali per il suo funzionamento. È ben vero che il perseguimento dell’efficienza di un ente, anche quello della scuola o dell’università, si può ottenere se si organizza lo stesso come si organizza una società per azioni o una fondazione. Ma è altrettanto vero che con la competitività e l’efficienza, economicamente parlando, non si ottiene certamente un surplus di cultura, non si ottiene verosimilmente un bilancio positivo di persone acculturate, né può dirsi, quand’anche il livello numerico degli ‘eruditi’ sia superiore a quello degli ‘asini’, che lo Stato abbia assolto alla sua funzione costituzionale di ‘acculturazione’ dei cittadini. Difatti anche in quest’ultima ipotesi gli eruditi, i quali sono pur sempre frutto di una logica ‘acculturante’ di mercato, difficilmente piegheranno la loro erudizione ad una logica che sia effettivamente diversa da quella di mercato nella quale, in fondo, sono stati ‘acculturati’. Certo, si potrebbe obiettare che è meglio semplicemente avere più eruditi che asini, in quanto ciò che conta, a livello di politica economica, è che lo Stato dimostri di aver ‘sfornato’ più ‘prodotti’ della cultura di quelli prodotti dall’ignoranza: questo, si dice, farà andare in positivo il ‘prodotto’ generale della cultura dello Stato e attrarrà più investimenti da parte delle imprese, soprattutto di quelle straniere.

In questo meccanismo, in fondo, ciò che conta è la logica del risultato non certo il modo o la bontà con cui esso si è raggiunto.

Ma in questo modo, sfornare più ‘laureati in medicina, significa veramente avere uno Stato più attento alla salute pubblica dei cittadini? Così, produrre più laureati in giurisprudenza, vuol dire realmente avere uno Stato che tiene alla giustizia dei cittadini? E ancora, avere più insegnanti, contraddistingue seriamente la cultura che uno Stato possiede?

Probabilmente no. Ed è la stessa logica del mercato che suggerisce questa risposta. Avere più medici non assicurerà di certo che quelli più bravi siano disposti a svolgere la loro professione negli ospedali pubblici piuttosto che nelle cliniche private: in queste ultime i medici verrebbero lautamente pagati. Allo stesso modo, nondimeno, non è detto che gli avvocati più bravi saranno quelli che lo Stato prevede a difesa dei cittadini meno abbienti, ad esempio attraverso l’istituto del gratuito patrocinio: ciò per il mero fatto che l’onorario statale potrebbe essere ben al di sotto di quello che il mercato offre. Così potrà accadere verosimilmente anche per gli insegnanti: quelli bravi, evidentemente, preferiranno insegnare nelle scuole o nelle università private piuttosto che in quelle pubbliche dove solitamente oltre a essere sottopagati ora, in virtù della “Buona scuola”, saranno anche (sotto)valutati. Tutto ciò accade di frequente, quando alla base della cultura degli individui, alla base cioè della cultura che essi hanno ricevuto dallo Stato, si insinua una sola ‘logica’: quella economica; questa, del resto, è insita nella stessa natura del mercato, il quale generalmente non persegue uno specifico fine culturale ma, appunto, un mero fine economico, di cui il profitto ne costituisce essenzialmente l’essenza.

29 dicembre 2015

Donato Vese

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